di Monica Pasero
L’auto correva in quella calda giornata di fine giugno, osservavo il viavai della vita che mi circondava, ma lambiva solo in parte i miei giorni, un ragazzo in bicicletta al semaforo ci superò, sbattei gli occhi felice per quell’attimo condiviso, chissà com’era andare su una bicicletta, che effetto faceva sfrecciare in una discesa senza freni come nei film. Osservai il suo volto sudato, pensai che la fatica di una pedalata non l’avrei mai provata! Sudavo quasi mai, non ero mai rosso in volto se non quando rabbioso piangevo, allora sì, gli occhi e la pelle si arrossavano e sfogavo così tutto il mio dolore, non avevo altri mezzi. Le vie del Centro erano affollate. Tutti andavano di fretta. Presi nei loro pensieri, dimentichi della loro fortuna: quante volte avrei voluto che queste mie maledette gambe si fossero mosse, anche per una sola volta, per provare che significa essere liberi!
I pensieri si arrestarono, quando l’auto fermò davanti ad una grande casa bianca. “Non eravamo mai venuti qui!” Attesi che mia madre mi sistemasse sulla mia sedia, poi sbattei gli occhi; lei capì la mia preoccupazione, «Tranquillo, è un bel posto! Vedrai ti piacerà; andiamo a conoscere degli amici nuovi!», mi disse allegra. Entrammo nella struttura, ci venne incontro un uomo con un camice bianco. Sbattei gli occhi nuovamente: “Un altro dottore, gli sputerò in faccia!”. Non sarebbe stata poi la prima volta, la mia saliva mi obbediva solitamente. Mi guardai intorno, tutto dava a pensare ad una clinica, “Forse mia madre si è decisa a sbattermi fuori di casa, si è stancata di accudirmi! E come darle torto? Sono un peso, e lo sapevo, una nullità venuta al mondo senza nessun scopo, né valore!”
«Sono contento di conoscerti, tua madre mi ha parlato molto di te!», esordì l’uomo.
“Conoscere me? E chissà di quali interessanti argomenti avrà analizzato con mia madre, forse sulla necessità di sopprimermi! Sì, sarebbe stata un’idea!” pensai ironizzando su quanto la mia poca pazienza era scemata nel lasso di tempo di un sorriso.
Poi l’uomo ci fece strada in quei lunghi e sterili corridoi. “Ero pronto a un altro fottuto letto di ospedale? Non sarebbe stata la prima volta, ma nelle altre occasioni mi avevano avvertito, oggi no! E questo non mi andava per nulla giù! Sarei stato attaccato a qualche macchinario innovativo, sperimentale, come in passato? Aghi e nuove terapie, esami su esami, volti di medici che leggono la mia cartella clinica per l’ennesima volta. Di quella documentazione ne potrei fare la mia biografia e rivenderla ai morbosi del dolore… In fondo il mio calvario esistenziale era eccelso, non avrei mai temuto il confronto. Ma ciò che vidi, quando l’uomo aprì una delle tante porte bianche, mi lasciò senza fiato. Fu qualcosa di insaziabile per la mia curiosità, che mi sconvolse e nel contempo mi lasciò perplesso. Mi trovavo in una specie di laboratorio: banconi, tavolozze, cavalletti, colori e pennelli sparsi ovunque e sulle pareti, appesi, tantissimi quadri raffiguranti ogni dove, il colore ricopriva ogni cosa e tutta questa vita mi spaventò! “Cosa ci facevo ad un corso di pittura? Questa volta mia madre si era giocata il cervello! Che avrei dovuto farci io qui? Forse dipingere?” ironizzai osservando le mie mani inermi: da quando ero nato, nessun movimento era emerso seppur il mio pensiero indugiasse, implorasse a quegli arti fasulli di darmi una sembianza umana, ma nulla! Le mie mani, le mie braccia erano morte come quasi ogni parte di me Sentii mia madre accarezzarmi i capelli, «So che sei sorpreso nel vedere tutto questo, non te lo aspettavi di certo, ma se ti ho portato qui, oggi, è per farti conoscere qualcosa che forse ti potrà servire, come ha servito ai ragazzi che dipingono questi quadri.» Sorrise ed uscì dalla stanza lasciandomi solo. Accennai una smorfia, mossi le dita dei piedi, sbattei gli occhi, feci tutto ciò che potevo per farla tornare indietro, ma lei questa volta non si voltò.
“Mi ha abbandonato! “Non so se fu per il pensiero o per la paura che fosse davvero così, ma tremai.
Poco dopo la stanza si animò, ragazzi in carrozzina riempirono la saletta, alcuni mi salutarono, altri sorrisero. “Sono come me! Morti in attesa. Alcuni non hanno gli arti superiori e altri quelli inferiori; Io ho tutto ma non funziono lo stesso!” ironizzai. “Ma che diavolo fanno? Non potevo crederci!” Alcuni con la bocca presero un pennello e bagnandolo nel colore iniziarono a dipingere. “Pazzi! Semplicemente dei pazzi!” Risi nel mio essere. “Cosa vogliono farmi credere che possono dipingere senza mani?” Avvertii un respiro vicino al mio volto e sentii la carrozzella muoversi; mi spostarono innanzi a uno di quei cavalletti, non potei ribellarmi. «Prova anche tu!» ¸ disse uno degli assistenti. “Ridicolo, assolutamente ridicolo! Non mi metterò mai un pennello in bocca! A che scopo poi? Farmi deridere da tutti voi?”
Feci una smorfia e stetti lì immobile con gli occhi fissi davanti a quella tela bianca. Il tempo sembrava essersi fermato intorno a me, l’unico rumore percepibile era il picchiettare dei pennelli sulla tela. Passarono le ore, non feci nulla, oltre che osservare il pennello che sfidava il mio buon senso e sperare che questa agonia finisse al più presto.
I ragazzi, terminati i loro lavori, furono accompagnati fuori dalla stanza! Ero rimasto solo io e la mia tela. Mia madre pareva essere sparita nel nulla, forse davvero mi aveva abbandonato, anche l’assistente era uscito. Lacrime rigarono il mio volto, sentii gli occhi riempirsi, non avrei potuto nasconderle… tirai su col naso, ma i singhiozzi erano troppi. Le mani di mia madre sulle spalle accolsero la mia richiesta: “Portami a casa!” Non disse nulla e mi ci riportò.
L’indomani ritornammo in quel Centro: stessa situazione e stessa mia incomprensione per questa tortura immotivata e così fu per la settimana a venire; le cose non cambiarono: restai sempre lì, fisso a scrutar la tela bianca, fino a che un giorno accadde l’immaginabile… I ragazzi erano usciti, anche per oggi le ore di pittura erano terminate, io attendevo mia madre, la porta si aprì: finalmente sarei tornato a casa a vedere la tv: la mia più grande consolazione era il cinema e almeno lì potevo vivere e immaginare, ma non fu lei entrare: al suo posto comparve un assistente, accostò vicino a me una carrozzina con un giovane che sorridente sbatté gli occhi… Lo riconobbi subito e ricambiai quell’ intesa con un groppo alla gola. “Giulio che ci fai qui?” pensai sbattendo nuovamente gli occhi. Era cresciuto! Lo ricordavo bambino, ma in fondo pure io non ero più lo stesso. Giulio afferrò un pennello tra le labbra e lo intinse nella tempera gialla e dipinse un sole sulla tela poi scosse il capo, mi stava dicendo: “Ora tocca a te!” Ne sono certo.
Titubante afferrai il pennello tra le labbra e lo immersi nel verde e sotto il sole tracciai una linea tutta storta di un verde poco composto che sulla tela risultò a bollicine, ma era un bel verde, e io vidi un prato per correre insieme a Giulio.
Giulio proseguì e punteggiò il prato di rosso… “Forse erano tulipani”. Presi un bel bianco e facendo roteare la bocca dipinsi a modo mio un pallone.
Il sole, un prato fiorito e un pallone per giocare! Giulio strizzò gli occhi, sembrava felice: forse aveva compreso ciò che avrei voluto fare e dipinse due bambini: eravamo noi! Ne sono sicuro. Era davvero bravo! “Forse anche io imparerò col tempo…” questo pensiero mi sconvolse: “Avevo voglia di imparare qualcosa?” Era la prima volta da tanto che qualcosa aveva toccato la mia parte viva … colsi la sensazione del dono, ripresi il pennello e picchiettai nel cielo con il giallo, erano farfalline, ma potevano anche esser stelle in una giornata di sole… perché ora credevo che le stelle potessero spuntare anche di giorno, e che lassù qualcuno aveva ascoltato la mia muta preghiera.
Buona Pasqua, Monica
- il racconto è stato premiato dall’ Accademia di medicina di Torino