di Monica Pasero
Federico oltre il buio, la vita, il libro di Renato Brinis è: “Un grido disperato e d’amore rivolto a mio figlio Federico, vittima di un incidente in moto nel 2008, a ventidue anni.” Così parla del suo libro Renato.
La scrittura è sempre stata l’unico strumento che lo abbia aiutato a convivere e andare avanti nel dramma che sta vivendo.
Da qui nasce questo libro in cui Renato ci porta tramite le sue riflessioni e le sue vicissitudini a conoscere a fondo il dramma che lo ha colpito, cambiando radicalmente le sorti di suo figlio e il suo modo di vivere.
Che cosa rispondere a un genitore il quale, disperato e arrabbiato, si chiede: “Perché proprio a mio figlio?” È questo uno degli interrogativi più comuni che l’autore si è trovato a dover affrontare quando è entrato nel mondo della disabilità.
Uno scritto composto da appunti, riflessioni e istantanee, che vuol essere anche un atto di accusa verso le istituzioni, che vedono ancora il disabile come una “rogna” e sono completamente impreparate a mettere in pratica la legislazione vigente.
INTERVISTA
D. – Grazie Renato di essere qui, parto subito col chiederle: In questo libro punta l’accento sulle mancanze da parte delle istituzioni, perché?
R. – Qui si entra in un percorso minato. Dopo il periodo lungo della riabilitazione iniziale Federico è ritornato a casa. Mia moglie ed io eravamo abbastanza tranquilli e rassicurati dal fatto che ci avevano detto: “Non dovete preoccuparvi ora la vostra Ulss vi prenderà in carico”. Niente di tutto ciò, anzi.
Incapacità da parte dei professionisti di gestire la situazione, le diagnosi infauste a cui nostro figlio doveva rassegnarsi. Burocrati ai quali la medicina è un elemento del tutto astruso. Bloccati in tutte le nostre iniziative per migliorare la qualità della vita di nostro figlio. L’estrema rigidezza delle assistenti sociali senza alcuna informazione sui diritti di mio figlio e soprattutto della loro palese ignoranza nel settore. Lettere inviate ai giornali per far conoscere all’opinione pubblica la nostra situazione, intervento del presidente della nostra regione a nostro favore. Minacce telefoniche da parte del direttore di distretto della nostra Ulss, invio del sottoscritto dal Giudice tutelare con l’accusa che impedivo tutte le riabilitazioni per mio figlio che, per i lor signori, doveva essere quella di inserire nostro figlio a 22 anni all’interno di una RSA. Colloqui con il direttore dell’area disabilità adulta che ci ripeteva in continuazione: “Cosa volete sperare, per vostro figlio non ci sono altri margini di miglioramento”. Dopo 16 lunghi anni di battaglie nei quali non ci siamo mai arresi Federico è ritornato a vivere certamente con i suoi limiti e le sue difficoltà ma, VIVE. Sempre e comunque a nostre spese lui ora va in piscina a nuotare, fa atletica leggera inclusa la corsa, visto e considerato che non avrebbe mai più potuto camminare, frequenta percorsi riabilitativi di fisioterapia, di psicoterapia e di logopedia. Nonostante sia cieco totale e un grave traumatizzato cranico grazie alla sua forza di volontà e alla tenacia di sua mamma e suo papà è arrivato ad avere una sua impronta di vita che lo coinvolge e lo stimola nel proseguimento del suo recupero.
D. – “Perché proprio a mio figlio?” Ha trovato la risposta?
R. – La risposta, in questi casi di disabilità acquisita, una condizione che prima non c’era e dove tutti gli interventi sanitari e assistenziali scandiscono per sempre il ritmo della vita, penso sia difficile trovarla. Resta comunque il dolore di quello che poteva essere ma non è stato. C’è la gioia e la certezza da parte nostra di aver dato a nostro figlio le possibilità per non sentirsi un escluso ed un emarginato e di vivere la sua disabilità nel miglior modo possibile. Resta il problema di quando non ci saremo più noi. Questo ci spaventa e ci impegna ancora di più con nostro figlio.
“Avrei voluto che mio figlio, nato “abile” e dimesso “handicappato”, non fosse mai arrivato ad essere così catalogato” Cosa la spaventa a oggi questo termine?
Per rispondere a questa domanda mi ricollego alla precedente e mia moglie ed io ci chiediamo: “Cosa sarà dopo di noi?” Non è la paura della disabilità in sé di nostro figlio ma il cosa sarà. Oppure aver vissuto momenti come il sentirsi dire dal proprio medico curante: “Personalmente se io avessi un figlio così non lo porterei in giro”. Sentirsi consigliare di nascondere la diversità da chi avrebbe il compito di starti più vicino proprio no non è accettabile. Per ribaltare poi il discorso verso la famiglia (sorelle, fratelli, zii, zie, cugini) che non ha manifestato nessuna condivisione e che ha preferito far finta di non vedere e tenersi alla larga. In sintesi: “Quando perdiamo il diritto di essere diversi, perdiamo il privilegio di essere liberi” Charles Evans Hughes.
D. – Come sta Federico, oggi?
R. – Per le sentenze dei cosiddetti professionisti doveva rimanere un vegetale, avrebbe dovuto restare per il resto della sua vita incontinente, non avrebbe mai più parlato, non avrebbe mai più camminato…NIENTE DI TUTTO QUESTO! Certo non per merito loro. Restano i suoi problemi di traumatizzato cranico e ne siamo consapevoli ma dalle sentenze alla realtà c’è di mezzo il mare.
Una parola alle famiglie che stanno affrontando la vostra stessa situazione.
Mai arrendersi, lottare contro tutto e tutti, cercare, informarsi, insistere senza nessuna pausa. Studiare e capire la disabilità del proprio figlio per capire come poterlo aiutare e trovare quali strumenti utilizzare. Non aver paura di confrontarsi con chi dovrebbe darti una mano ma metterlo difronte alle sue mancanze e alla sua incompetenza con chiare e precise richieste che gli facciano capire che non siamo degli stupidi. Non ci si deve far sopraffare da questo mondo di burocrati e farci muovere come pedine su di una scacchiera di dama.




