L’origine delle fate si fa risalire alla figura delle Parche della mitologia classica, in latino “Fatum”, ma è nel Medioevo che il loro aspetto si trasforma in quello di fanciulle con copricapo a punta. L’aggiunta delle ali arrivò solo in epoca vittoriana. I racconti delle faie o fate, così come quelli di altre creature misteriose che popolavano i boschi e spesso si avvicinavano alle case per far dispetti o ingannare la gente, erano anche l’argomento delle storie raccontate d’inverno attorno al focolare o nelle stalle dove la gente dopo una giornata di lavoro si ritrovava. Spesso questo era l’unico intrattenimento nelle lunghe e fredde serate. Così un po’ tutti, ma ancor più i ragazzi affascinati ma anche spaventati, ascoltavano in silenzio queste storie che erano ambientate spesso nei dintorni dell’abitato.
Tutti i paesini erano rapiti da racconti e presagi, vuoi per tradizione, vuoi per un problema correlato all’analfabetismo molto marcato nelle vallate pedemontane almeno sino alla fine degli anni cinquanta del novecento. Le faie era donne piccole e pelose, sempre indaffarate. Erano loro ad aver insegnato alle donne a fare maglia e a cucire. Una volta le faie vivevano sulle nostre montagne e i contadini che andavano nei boschi a fare legna, vedevano la loro biancheria stesa sulle rocce ad asciugare. Se la toccavano, le faie di nascosto li bersagliavano con delle pietre, ma se la rimettevano a posto tutto cessava. Così si racconta di file di fate in processione nelle notti cervaschesi accompagnate dal suono dei campanellini. Nelle Alpi Cozie si potevano persino vedere per terra le orme di piedini della danza fatata. Nelle Langhe esisteva la Bergera, parente stretta della Befana, che appariva come una vecchietta e sapeva curare bestie e uomini con le erbe. Nel cuneese realtà a forte tradizione cattolica, i luoghi sacri delle fate sono diventati dei santuari dedicati alla Madonna.
Spesso sono piccole cappelle immerse nella natura e custodiscono veri e propri tesori dal valore artistico inestimabile Alcune di queste hanno qualche centinaio d’anni, altre sono più recenti. Il mondo dell’immaginario è piuttosto diversificato così oltre alle fate, nel cuneese troviamo tre folletti appartenenti tutti al Piccolo Popolo che in misura diversa molestano il quieto vivere dei bambini e dei ragazzini. il Barbaio ad esempio è un folletto che occupa le serate spaventando i ragazzi che tardano a rincasare. Simile a lui ecco Luo Barabicchou, chiamato così per la barba caprina che porta sul mento.
Come il “cugino”, anche lui adora spaventare i bambini. poi il Sarvant un folletto aiutante che vive nelle case di campagna in provincia di Cuneo. Possiede una forza incredibile ed è in grado di rendersi invisibile. Quando viene offeso o scacciato si vendica costringendo qualche voltale famiglie ad abbandonare l’abitazione. In presenza di una bella fanciulla, come molti membri del Piccolo Popolo, il Servan abbandona ogni impulso aggressivo e diventa educato e premuroso. Spesso aiuta la fanciulla nelle faccende domestiche in cambio della sua compagnia. Questi folletti desidererebbero assomigliare agli esseri umani, al punto da scambiare i loro piccoli con i bambini appena nati. In piemontese chiamare una persona Sarvan o Sarvanot significa sottolinearne l’aspetto più istintivo e giocoso. Dal dialetto il termine conferma le sue origini risalenti al mito dell’uomo selvatico, data la condivisione della stessa radice con l’aggettivo sarvai, cioè selvatico, villanzone, intrattabile, selvaggio, solitario.
Il Sarvanot è piccolo, peloso, schivo, giocherellone e dispettoso. Non è mai cattivo, anzi, in alcuni casi si rivela persino saggio e generoso. Quando non gioca dei brutti scherzi agli umani, è in grado di aiutarli con piccole magie o dispensando perle di saggezza, per superare i frequenti inconvenienti di un’esistenza disagiata, dura e molto povera. Come già ricordato fate, folletti e gnomi sono abituali residenti dei boschi. E questo sin dall’antichità, così anche gli alberi e la vegetazione sono entrati con merito come protagonisti dei racconti acquisendo con poteri benefici e malefici.
iLa quercia ad esempio è una pianta sacra venerata fin dall’antichità. Si racconta infatti che il rumore delle sue foglie spesso delle sue foglie altro non era la voce della divinità che annunciava gli oracoli. Il larice preveniva gli incantesimi. Così un collare della sua corteccia rappresentava una garanzia contro il malocchio e veniva fatta indossare dai bambini come una sorta di amuleto. Il castagno era simbolo di protezione. Insieme al latte e le castagne era il nutrimento principale dei l’autunno. Per questo motivo, nel Cuneese le castagne venivano lasciate come pasto dei defunti in visita la notte del 31 ottobre, la vigilia dei morti, dopo la recita del rosario. Il nocciolo era simbolo di fertilità, ricchezza, ispirazione, saggezza, verità e conoscenza. Con il suo legno venivano fabbricati strumenti magici, a partire dalle bacchette, si proprio quelle di Mago Merlino e dalle nostre parti utilizzate dalle fate. Ancor oggi a Monterosso Grana oggi esiste “il sentiero del Servanot”.
Dal cimitero del paese un sentiero attraversa il bosco circostante seguendo un percorso circolare. Si dice che in questo bosco viva il Servanot, uno spiritello dispettoso metà uomo e metà animale, e che ogni tanto si mostri per far dispetti. lungo il percorso si trova la Porta dei Segreti del Villaggio delle Fate. Qui ci sono delle fessure scavate nei tronchi degli alberi, rifugio di quattro fate. Il loro nome è: Pervinca, Veronica, Primula e Bucaneve.
Ed a Villar San Costanzo ci sono i Ciciu. Dal punto di vista scientifico, si tratta di piramidi di erosione la cui formazione risale a circa 12 mila anni fa. Terminata l’ultima glaciazione. Il loro diametro varia da 2 a 7 metri. Piramidi delle Fate, Madamigelle, Omeni, Funghi di Terra, Testimoni, Pilastri. Insomma, ciascuno ha il suo nome e Villar San Costanzo li ospita tra castagni, pioppi e betulle proprio come si deve quando trattiamo di fate. Cambiamo vallata ed al Palanfrè il paese dei faggi e degli gnomi in val Vermenagna ecco il “bosco bandito” . Nella narrativa popolare il faggio è albero magico abitato da creature incantate. Per far sì che il bosco proteggesse l’abitato dalle valanghe, particolarmente frequenti nel periodo invernale, fin dal ‘700 gli abitanti della frazione hanno bandito il taglio delle piante che si trovavano a poca distanza dalle case. A Vernante sono custoditi i Bandi Campestri del 1741 che testimoniano come quel bosco fosse protetto fin da allora.
Ed a chiudere Villafalletto dove un ragazzotto, orfano e povero, con alcuni stracci addosso si aggirava poco lontano dal ponte. La popolazione preoccupata si rintanava in casa preoccupata e spaventata perché un drago con sette teste visitava le campagne limitrofe al borgo mangiandosi in sol boccone chi gli si faceva di fronte. Così un giorno proprio sul ponte, quasi di sorpresa il ragazzo si era ritrova a fronteggiare il drago minuto di uno spiedo. Affondò un colpo nel ventre della bestia. Il drago colto di sorpresa, cercò di dare una fiammata ma non ci riuscì. Il ragazzo spinse ancora la punta dello spiedo fino a trovare un osso ed affondò un nuovo fendente. Il drago si dimenandosi si allargò lo squarcio e pochi istanti dopo morì facendo crollare il ponte. La gente soccorso il ragazzo impaurito, fece rotolare il corpo del drago fino a un dirupo e provando a gettarlo giù ma restò incastrato. La carne pian piano si staccò ma le ossa restarono ben solide facendone la base per un nuovo ponte. Il ponte del drago di Villafalletto. Il mondo della fantasia ha percorso anche le nostre vallate, lasciando segni importanti di una cultura inizialmente pagana, che ha condizionato la tradizione e la quotidianità della gente del posto. Non tutto è fiaba, non tutto è fantasia. Tutto questo è servito però per unire una realtà, una tradizione che poco supportata dalla conoscenza, ha creduto anche ingenuamente ad una fata, uno gnomo o un folletto.