Prima di parlare di quanto sia importante cambiare la nostra struttura politica riguardo alla concessione della cittadinanza, dovremmo fare un passo indietro a livello sociale e culturale.
Partiamo dalle basi sociali della nostra società: siamo in un momento in cui tutti possono esprimere le stesse opinioni e avere lo stesso ascolto, nonostante non tutti abbiano uguale formazione e competenze. In una società in cui un generale dell’Esercito Italiano può appropriarsi, per usi politici, di un termine statistico. Per di più facendo intendere il mantenimento del significato e nascondendosi dietro dati fittizi, frutto di una stima personale e soggettiva. Mente il concetto di normalità e anormalità in termini socio-culturali e molto meno semplicistico di così.
In un paese in cui i ministri della Repubblica Italiana, persone che dovrebbero essere scelte tra le menti più brillanti e gli statisti più capaci, possono dire e fare ciò che vogliono, anche commettendo errori madornali, con il solo risultato di suscitare una bella risata nazionale.
In una Regione in cui la sanità si sta spostando dal pubblico al privato in un batter d’occhio, noi restiamo impauriti ad attendere il domani.
Ecco che arriva la proposta dello ius scholae. Devo dire la verità: se non avessi riflettuto più ampiamente, ne sarei stato davvero entusiasta . Tuttavia, dobbiamo pensare a tutto, perché lo ius scholae non è un obiettivo finale, bensì un piccolo passo nella direzione del domani. Se oggi il dibattito su Paola Egonu, gladiatrice d’Italia e, a mio parere, meritevole di onori al pari di tutti i nostri atleti, ci porta a pensare che la nostra idea di italianità debba cambiare, dobbiamo farlo con criterio e non con la solita velocità che caratterizza questi movimenti sociali.
Ora la domanda che dobbiamo porci è: chi è italiano? O meglio, data la radice latina di ius (diritto), chi ha il diritto di essere identificato come italiano? Consideriamo che sempre di più, almeno tra i giovani, l’ideologia di “cittadini del mondo” influenza le nostre scelte e i nostri pensieri. Ma non è sempre così scontato. Un amico un giorno mi disse: “non posso più definire questo paese una Democrazia ma posso oltremodo dire che è una Repubblica”.
Questo mi ha fatto riflettere molto, e mi è tornato in mente pensando alla cittadinanza: in un paese in cui domina il sentore di res publica (cosa pubblica) e sempre meno di dêmos-kratéō (potere del popolo), si rischia di diventare chiusi… si rischia di pensare che i doveri delle persone debbano superare di gran lunga i diritti… si rischia di pensare che un migrante debba lavorare “per il bene dell’Italia nei campi italiani”, ma senza protezioni; e se muore, si discute un po’ della questione, ma poco dopo si passa a guardare qualcos’altro.
Ora la mia domanda la prendo in prestito da uno scrittore sicuramente mille volte più bravo di me: Questo è un uomo? Stiamo dando un’opportunità a un uomo o lo stiamo obbligando a dare tutto se stesso per ottenere il permesso di vivere in una nazione che probabilmente non sentirà mai come sua? Scusate se ho tante domande e poche risposte, ma preferisco pensare e aiutare a riflettere piuttosto che offrire pillole di saggezza inutili, che lasciano il tempo che trovano e che aiutano la nostra società a nascondere tutte le riflessioni sotto il tappeto dell’ignoranza e dell’incomprensione.
Il problema è che identifichiamo molto velocemente chi ha doveri verso il nostro Stato, e molto meno chi dovrebbe scegliere con noi cosa fare di questo Stato. Se tutti possono parlare, allora le possibilità di fare quello che si vuole diminuiscono. Ma se pochi possono comandare si diventa un Oligarchia. Tutti punti interessantissimi, che però vanno approfonditi molto meglio, magari in un dibattito, magari studiando o riflettendo su tutte le possibilità e le idee.
Intanto lo ius scholae rimane, a mio parere, un passo avanti rispetto al passato, ma sicuramente non un punto d’arrivo.
* nella foto Gabriele Farina con i componenti del direttivo della Consulta Giovanile di Cuneo