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La rapina nella casa del cappellano

22/10/2024 | Accadde un tempo

A metà ottocento, i più pensavano che  i sacerdoti, anche se modesti parroci di campagna, fossero possessori di grandi ricchezze. Così i tentativi di rapina e le estorsioni erano quasi l’abitudine in una società che faceva quotidianamente i conti con la fame. Le cronache del tempo, raccontano di quanto da un fazzoletto si avvicinarono alla casa di don Chiaffredo Disderi, cappellano della chiesa delle Grazie di Revello. Con un escamotage, l’invito ad andare a confessare un malato in fin di vita nel Borgata San Carlo. Così bussarono, una, due e tre volte. La sorella ad aprì loro la porta. Dei cinque, tre entrarono e due rimasero fuori di guardia. Quando tutto pareva volgere al meglio, accomodatisi in una stanza attigua ecco la sorpresa. Ad attenderli, più o meno nascosti due carabinieri che li avevano anticipati di qualche minuto e si erano nascosti dietro un armadio. Uno dei tre malviventi riconosciuto un berretto militare con il fregio d’argento, facendo un passo avanti, esplose due colpi di pistola. I due militari, Nasi e Carletti, abbassando la testa ed  evitando di essere colpiti. Ne seguì una fuga ed una colluttazione poco fuori la casa dove altri carabinieri si erano appostatati. Uno dei malviventi esplose altri colpi che sfiorarono il carabiniere Bosco. Lo scontro proseguì ed i carabinieri ripresero il controllo della situazione. Il bilancio fu drammatico: tra i rapinatori un morto e tre feriti arrestati. Tra i militari il Nasi riportò una live ferita al sopracciglio e l’Ascheri una ferita alla mano. Di un quinto rapinatore che rimarrà sconosciuto, se ne persero le tracce nella confusione del momento.

Dal rapporto stilato dai carabinieri i malviventi che erano entrati ed avevano sparato in casa sono Giacomo Dedominici, nato a Sanfront e abitante a Savigliano, “pristinaio”, sarebbe panettiere, di 22 anni, sposato con figli e Pietro Peracchia, nato a Gambasca, senza fissa dimora, minatore, contadino, soldato nel reggimento Nizza Cavalleria in congedo illimitato, di 28 anni, scapolo. Al momento dell’arresto gli si  trovarono addosso tre grimaldelli e due chiavi false. Quello che ha sparatò sui carabinieri fuori la casa era suo fratello Giacomo Peracchia, di soltanto 17 anni (nato il 26 maggio 1838 a Gambasca), contadino scapolo che abitvaa a Savigliano. Morto, Francesco Cardetti, che portava un sacco per il bottino: i giudici nella sentenza diranno che ha pagato “colla vita la criminosa sua impresa la quale se non fu condotta a compimento si deve unicamente alla solerzia ed attività della benemerita Arma dei Carabinieri”.

Alla conclusione dell’istruttoria, i tre vennero accusati “…della tentata rapina a don Disderi, commessa a mano armata di pistole, coltello e bastone, di ribellione alla giustizia con mancato omicidio e ferimento dei carabinieri”.

Pietro Peracchia, infine, fu incriminato per il possesso di grimaldelli e di false chiavi. I tre compari vennero processati nel febbraio del 1857 in Corte di Appello di Torino. Secondo i giudici, gli accusati nelle loro risposte

“…vennero tessendo una storia che non si sa se abbia a considerarsi come più sfacciata od assurda, e che interrogati separatamente trascorsero inoltre in quello strano loro racconto nelle più palpabili contraddizioni”. Cosa dicono gli accusati di così sfacciato o assurdo?

Parrebbe che il quinto complice fosse d’accordo con i carabinieri. E non ci si dovrebbe stupire se fosse stato l’aiuto di una “soffiata” a far cogliere i malviventi in flagranza di reato.

 

proseguiva la Corte “…é stato appurato che gli imputati avevano deciso di depredare don Disderi e poi di fuggire all’estero. Avevano già preparato i passaporti. Avevano progettato il colpo il 27 ottobre, ma era andato a vuoto perché pioveva a dirotto. I giudici riprovano l’aperto sprezzo alla religione degli accusati: scrivono che “facendosi sgabello della religione per giungere all’infame loro scopo, colsero il mal augurato pretesto di avere bisogno del cappellano per confessare un moribondo”. Fra i dodici testimoni, depose anche Maddalena, la sorella di don Disderi, riscuotendo tutta l’ammirazione dei giudici. In una epoca in cui le donne risolvevano molte situazioni con uno svenimento, Maddalena raccontò come aveva organizzato e gestito il tranello secondo accordi presi con i carabinieri, nascosti nella casa, nella chiesa e nell’aia: Dal resoconto della seduta”.. ha aperto la porta, ha condotto “gli sciagurati” nella sala dove erano nascosti i carabinieri, ha assistito a tutta la scena. Ecco perché, nella sentenza, i giudici parlano di “un coraggio più che virile”. I tre malandrini, dopo gli spari, hanno opposto la più viva resistenza, malgrado le intimazioni di arrendersi, tanto che due carabinieri sono rimasti feriti, e i militari hanno dovuto fare uso delle armi per difendersi”. Queste considerazioni fornirono ai giudici la prova della colpevolezza dei tre detenuti. I cinque malviventi volevano derubare don Disderi e non ci riuscirono per causa indipendente dalla loro volontà.

“I colpi di pistola contro i carabinieri e le altre violenze costituiscono una ribellione alla giustizia accompagnata da un chiaro tentativo di omicidio, di cui tutti e tre sono ugualmente colpevoli.”

Da un punto di vista giudiziario “…é un reato da pena di morte, secondo l’articolo 581 del Codice penale del 1839 (“È punito anche di morte l’omicidio volontario quando è stato mezzo o conseguenza immediata del delitto di ribellione alla giustizia sebbene solo tentato…”).

Così con sentenza del 17 febbraio 1857, la Corte di Appello

condanna a morte Giacomo Dedominici e Pietro Peracchia, previa degradazione di Pietro Peracchia.

Condanna il minore Giacomo Peracchia alla reclusione per venti anni, più altri dieci anni di sorveglianza della polizia: gioca in suo favore la sua età, maggiore degli anni quattordici, minore però dei diciotto, perché l’articolo 95 del Codice penale stabilisce che “il reo maggiore d’anni quattordici, e minore dei diciotto sarà punito nel seguente modo: se è incorso nella pena di morte, sarà condannato alla pena di venti anni di reclusione”. La difesa tentò un ricorso in Cassazione, respinto il 24 aprile 1857.

Con Regio Decreto 19 maggio 1857, la pena di morte di Giacomo Dedominici e Pietro Peracchia venne poi commutata nei lavori forzati a vita.

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